HOME     
     
LA VITA
Terminata la guerra, Dino Buzzati riprende le ascensioni sulle Dolomiti. Le aveva interrotte per gli impegni giornalistici - prima in Africa e poi sul fronte di guerra - nel 1942, dopo essercisi dedicato con passione e regolarità dal 1920, quando, a 14 anni, aveva scalato il Pizzocco e la Marmolada. Le riprende con la guida alpina Gabriele Franceschini, con cui nonostante una differenza d’età di ventiquattro anni - Buzzati ne ha quarantadue, Franceschini ventisei - instaurerà un lungo e profondo rapporto di amicizia, fatto di confidenze e complicità. Insieme scaleranno regolarmente ogni estate dal 1948, quando avviene il loro primo incontro, fino al 1956, aprendo cinque nuove vie e arrivando in vetta, tra le altre, della Cima Mastorna, della Torre della Madonna, del Campanile del Frecobon, della Torre Pradidali. Buzzati è uno scalatore appassionato che arriverà a compiere ascensioni di un certo peso alpinistico. L’amore per la montagna nasce in Dino Buzzati da bambino, davanti alle cime che si affacciano sul giardino della casa di famiglia a San Pellegrino: con «i fantasmi di ghiaccio», con «le montagne di vetro» «purissime nelle albe violacee» stringe un legame fatto di gioie e tormenti che lo accompagnerà per tutta la vita senza spezzarsi mai, tanto da renderle un elemento fondante della sua poetica, simbolo del mistero, del tempo che passa, della fragilità della vita. Presenti nei romanzi («Bàrnabo delle montagne» e «Il segreto del Bosco Vecchio» in testa), nei racconti («Le montagne proibite», «Notte d’inverno a Philadelphia»), saranno oggetto anche di numerosi servizi giornalistici, in cui racconterà protagonisti (da Tita Piaz a Walter Bonatti), imprese (dalla conquista del Bianco al K2), cime (da «L’amico Schiara» a le Pale di San Martino). Nel 1950 Dino Buzzati viene chiamato a lavorare a «La Domenica del Corriere». La carica, che manterrà fino al 1963, è quella di vicedirettore, ma si tratta di una carica ufficiosa visto che il suo nome non compare nel colophon di redazione e che Buzzati assolve al nuovo compito senza trascurare quello quotidiano al «Corriere della Sera». In realtà ne è a tutti gli effetti il direttore ombra accanto a Eligio Possenti che però, pur avendone la qualifica, non se ne occupa. L’obiettivo: risollevare le sorti di un settimanale storico che l’arrivo di nuovi rotocalchi come «L’Europeo», «Oggi» e «Epoca» ne ha minato l’egemonia (un milione e ottocentomila copie vendute durante la guerra). Tra le mani di Buzzati, capace di sintonizzarsi con il gusto popolare, «La Domenica» si trasforma, acquistando un proprio stile e diventando, come dirà anni dopo Gaetano Afeltra - che aveva suggerito il nome di Buzzati per quell’incarico -, «un fenomeno di costume», tornando nel 1962 a superare la diffusione di un milione di copie. Nel settembre 1950 esce per l’editore Neri Pozza «In quel preciso momento», «una raccolta di elzeviri, racconti, apologhi», come la definisce l’autore stesso, presi soprattutto dai suoi diari personali. Esce in due edizioni: la prima di ottantotto pezzi, la seconda (nel 1955) di centoventotto. Dopo la sua morte, nel 1974, ne uscirà una terza con la quale i «coriandoli di poesia», come li aveva definiti Eugenio Montale, saliranno a centocinquantacinque. Due anni più tardi, nel maggio 1953, va in scena al Piccolo Teatro di Milano «Un caso clinico», pièce tratta dal racconto «Sette piani» con la regia di Giorgio Strehler e Tino Carraro nei panni del protagonista Giovanni (e non più Giuseppe) Corte. Nonostante le poche repliche, la rappresentazione viene bene accolta sia dal pubblico che dalla critica, oltrepassando anche i confini italiani. Approderà a Parigi nel 1955 dove verrà rappresentata al Théatre La Bruyère con il titolo «Un cas interessant» per la regia di Georges Vitaly. Autore dell’adattamento è Albert Camus, futuro Premio Nobel, con il quale Buzzati instaura un sincero rapporto di amicizia. «Benché fosse più giovane di me», dirà lo scrittore, «aveva un atteggiamento da fratello maggiore, preoccupato che tutto mi riuscisse semplice e familiare». Tra i due appuntamenti teatrali, nel 1954, arriva in libreria la raccolta di racconti «Il crollo della Baliverna» con cui vince il Premio Napoli. Un anno più tardi debutta al Teatro Donizetti di Bergamo il racconto musicale «Ferrovia sopraelevata», dando inizio a una lunga e amichevole collaborazione con il musicista e compositore Luciano Chailly. Sono anni, questi, molto prolifici per Buzzati che affianca al quotidiano lavoro al «Corriere» e a «La Domenica», la scrittura di racconti, le collaborazioni per documentari («Il Postino di montagna» di Baruffi, «Sesto Grado» di Enrico Pedrotti, «Mizar» di Francesco De Robertis), la messa in scena di pièce teatrali («Drammatica fine di un noto musicista», al Teatro Olympia, nel 1955 per la regia di Brissoni). Gli viene persino offerta (nel 1957) da Angelo Rizzoli la creazione e la direzione di un nuovo settimanale, offerta che rifiuta per non lasciare il «Corriere della Sera» e potersi dedicare alla letteratura. Nel 1958 esce per Mondadori la raccolta «Sessanta racconti», con cui vince il Premio Strega, e nello stesso anno, in dicembre, tiene la sua prima personale di pittura alla galleria dei Re Magi di Milano. Titolo: «Le storie dipinte». In mostra, una serie di quadri figurativi, accompagnati ciascuno da un breve racconto. Tra tutti spicca «Il Duomo di Milano» (sulla cui vendita Buzzati ha posto il veto) che rappresenta la basilica come una roccia dolomitica (ispirata alla cima Canali) e la piazza come una verde prateria sulla quale alcuni contadini tagliano l’erba e ammucchiano balle di fieno. La mostra riscuote un buon successo, ma l’intenzione di Buzzati di dedicarsi alla pittura lascia perplessi (a volte addirittura contrariati) gli addetti ai lavori e i suoi appassionati lettori. La passione per la pittura affonda le radici nell’infanzia, quando Buzzati ingaggiava gare di disegno con l’amico Arturo Brambilla. Le sue lettere, fin da bambino, così come i suoi taccuini di appunti sia personali che giornalistici, sono sempre arricchiti da disegni, a colori e al tratto, che sottolineano e completano il testo (da cui sono a loro volta completati), e funzionano da linguaggio parallelo e inscindibile rispetto a quello della parola. La sua pittura diventa così quasi naturalmente una pittura letteraria, narrativa. «Dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie», spiegherà anni dopo in «Un equivoco», un testo ironicamente provocatorio nel quale rivendicherà il proprio essere pittore oltre che scrittore. «Io mi trovo vittima di un crudele equivoco», scriverà. «Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa e le mie pitture quindi non le “può” prendere sul serio». A conferma di tutto ciò firma bozzetto e costumi di «Jeu des cartes» di Igor Stravinskij che va in scena al teatro alla Scala nel 1959. Nello stesso anno viene presentata al Teatro Villa Olmo di Como l’opera buffa «Procedura Penale» su musiche di Luciano Chailly e l’anno successivo sempre alla Scala viene rappresentato «Fantasmi al Grand Hotel» balletto di Luciana Novaro su soggetto dello stesso Buzzati (autore anche di scene e costumi) con musiche di Luciano Chailly. Sempre ne 1960 esce a puntate sulla rivista «Oggi» il romanzo, «Il grande ritratto», storia fantascientifica ambientata nel 1972 ispiratagli probabilmente da una serie di incontri con Silvio Ceccato. Pubblicato in seguito in volume, verrà definito dallo stesso Buzzati «Un libro così così. Un libro». Ben diverso da «Egregio signore siamo spiacenti di...», una raccolta di aforismi, paradossi, riflessioni, racconti-lampo, alcuni già pubblicati altri inediti, che esce nel dicembre 1960 per l’editore Federico Elmo di Milano. Arricchita dalle illustrazioni del disegnatore satirico Siné (al secolo Maurice Sinet), il libro tocca con disincanto i temi della sanità, della giustizia, della burocrazia, della politica e della morte.