Abbecedario
AUTORITRATTO «Sono brutto. Secco, naso pesante, voce ruggine, introverso, nessuna comunicativa, scarso successo con le donne». «Sono quasi visceralmente pessimista. E pensare che non è che questo pessimismo mi sia nato da tristi esperienze. Eppure io ho avuto sempre questa sensazione, come se dovesse succedere qualcosa di triste e di brutto. Soprattutto se io sono in un posto tranquillo e silenzioso, come in campagna, ho come la sensazione che da un momento all’altro debba capitare qualcosa di catastrofico, non so, come un bolide, un meteorite, che piombi sulla Terra e la sfasci». «Sono sempre stato un tipo zelante e scrupoloso: se in una giornata riesco a realizzare bene un lavoro sto meglio, persino fisicamente, provo una specie di liberazione. Mi definirei un doverista. Da ragazzo soltanto l’idea di poter bigiare la scuola mi metteva addosso il terrore».
BELLUNO «Sono nato a Belluno nell’ottobre del 1906. La mia famiglia era del luogo: io però sono sempre vissuto a Milano. Mio padre insegnava Diritto internazionale all’Università di Pavia, e l’estate si recava con la famiglia a trascorrere le vacanze vicino a Belluno. Io sono dunque nato là
per caso, durante una vacanza».
CORRIERE DELLA SERA «Quando parli del “Corriere”, quando scrivi dei suoi uomini più rappresentativi vai fatalmente a incrociare con la storia della politica, del costume, della letteratura, dell’editoria, in una parola con la storia d’Italia». «Fu Eugenio Balzan, direttore amministrativo, ad assumermi, ma lo vidi una volta sola in vita mia, quell’uomo incredibile. Mio padre aveva collaborato a lungo al “Corriere” ed io me ne ricordai quando decisi, all’ultimo anno di università, di fare qualcosa. Scrissi una lettera a Balzan, presentandomi. In bella scrittura ed esattezza, come s’usa. Mi mandò a chiamare subito, e mi ricevette gentilmente. Degli articoli di mio padre sapeva più lui di me. Non prese impegni. Dopo il colloquio, sette mesi di silenzio. Poi il 9 luglio 1928 un invito: a presentarsi a Ciro
Poggiali, capocronista del “Corriere”. Vado e divento reporter di cronaca nera e, quasi subito, anche “vice” per la cronaca musicale».
DIO «Nonostante il residuo cattolico che rimane in me per l’educazione religiosa ricevuta, oggi io non credo. Soprattutto non credo nell’Aldilà. E
siccome, per me, tutto il problema di Dio deriva dal credere o no nell’Aldilà, il resto ha minore importanza, conta meno».
EXTRATERRESTRI «A quanto si sa, a quanto hanno detto gli astronomi, si dovrebbe dire che esistano, data l’esistenza, dicono, di centinaia di migliaia di milioni di pianeti di altri sistemi stellari che si trovano pressappoco nelle stesse condizioni della terra e che quindi, lì, come da noi, dovrebbe essersi verificato il fenomeno della vita. Personalmente però io stento a crederci, anzi, confesso che non ci credo che possano esistere degli esseri simili a noi. È una sensazione, è un sentimento, è un’intuizione, non è un ragionamento scientifico, ben s’intende».
FANTASTICO «Ritengo che il motivo della mia propensione verso il fantastico sia, come tutte le propensioni dell’uomo, legato a
delle esperienze infantili. La mia famiglia, i luoghi in cui ho vissuto, ma soprattutto i ricordi di quando ero piccolo. I più forti sono quelli estivi quando da Milano andavo a Belluno che è già una terra abbastanza
nordica: e le montagne hanno esercitato su di me un influsso straordinario.
Naturalmente hanno contribuito anche l’educazione impartitami e i libri letti. In più c’era in casa una signorina tedesca che ci raccontava le fiabe del Nord poco note in Italia. E poi Hoffman, Poe…».
GIORNALISMO «Il giornalismo, per me, non è stato un secondo mestiere.
L’optimum del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura. E non vedo come la pratica del giornalismo, se si tratta di buon giornalismo, possa nuocere a uno scrittore».
HOBBY «Pittura per me non è un hobby, ma il mestiere; hobby è scrivere. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga
o che scriva io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare storie».
ITALIANI «Quello che si dovrebbe insegnare nelle scuole è quella che io chiamo “decenza” o “pulizia del carattere”. Si dovrebbe imparare fin da piccoli a non vantarsi, a non voler comparire più di quanto non si sia in realtà, insomma a non essere cafoni. Questo è il maggior difetto degli
Italiani. Basta che uno sappia guidare un’auto per sentirsi autorizzato a dire che corre la Millemiglia».
KAFKA. «Da quando ho cominciato a scrivere, Kafka è stato la mia croce. Non c’è stato mio racconto, romanzo, commedia dove qualcuno non ravvisasse somiglianze, derivazioni, imitazioni o addirittura sfrontati
plagi a spese dello scrittore boemo. Alcuni critici denunciavano colpevoli analogie anche quando spedivo un telegramma o compilavo il modulo Vanoni».
LETTURE. «Non leggo niente. Del resto sono i critici che devono leggere. Io voglio leggere ciò che mi piace, ma quel che si scrive oggi è tutto insopportabilmente noioso. A confronto, i classici risultano travolgenti: Tolstoj, Manzoni, Balzac… Adesso nessuno sa più scrivere una storia inventata, tutti si rifugiano nei ricordi d’infanzia e non c’è chi li smuova».
MORTE. «Non può esserci vita senza l’incubo della morte, unica realtà in quel baraccone luccicante che è l’esistenza. Siamo terrorizzati dalla morte, abbiamo questo spavento che diventa atroce con la vecchiaia. Ma senza questo spavento la vita sarebbe una cretinata».
NATURA «Io credo che la natura dell’uomo sia immutabile. C’è solo una cosa che potrebbe cambiarlo. Ed è l’avvento d’una umanità nuova e misteriosa che gli fosse superiore. Se domani planasse sulla Casa Bianca e poi sul Cremlino un disco con dentro due esseri appartenenti a una specie
superiore, allora sì che tutto cambierebbe! Ah, sarebbe una bella punizione per l’uomo, e un po’ se la meriterebbe! Lo costringerebbe a un esame di
coscienza violentissimo».
ORSI «[Come nacque “La famosa invasione degli orsi in Sicilia?”] Tanti anni fa, ogni mercoledì, la famiglia di mia sorella veniva a pranzo in casa nostra, cioè della mamma e di noi tre fratelli. Siccome mi sono sempre divertito a disegnare, una di quelle sere le nipotine Pupa e Lalla, che avranno avuto undici-dodici anni, mi hanno chiesto: “Zio Dino, perché non ci fai un bel disegno?”. Allora ho preso le matite colorate e, chissà perché, mi sono messo a fare una battaglia tra orsi e soldati, in un paesaggio di neve. Il disegno, fatto in pochi minuti, era abbastanza rozzo ma piacque alle nipotine»
POLITICA. «Di politica non mi importa niente. Durante la guerra, e anche prima, io facevo le stesse cose che faccio oggi. Tali e quali. Poi ho saputo
che i miei colleghi, negli ultimi anni, s’erano organizzati nei movimenti clandestini. Io non me n’ero neppure accorto. Non badavo né agli uni, né
agli altri, scrivevo. Ce ne vuole di fatica, per scrivere. Fatica fatica, intendo. Bisognerebbe essere alti, forti, giganteschi, avere una struttura di ferro. E non pensare ad altro».
QUADRI «Per sbaglio qualificato, professionalmente, come scrittore, incontro, come pittore, una barriera dinanzi a me. E color che amministrano gli onnipotenti mezzi di informazione sono disposti a mettere in vista un mio libro, ma rispondono con un ironico sorrisetto quando mi affaccio coi miei disegni e quadri».
ROMANZI. «Come scrittore sono venuto fuori tardi e fu una sorpresa per molti. Il libro che mi lanciò fu “Il deserto dei Tartari” che Longanesi pubblicò nel 1940. Mi hanno detto che Longanesi fece leggere il manoscritto a un suo critico di fiducia e che questi glielo restituì dicendo che non valeva nulla. Allora lui, che era un bastian contrario per
natura e per vocazione, lo mandò subito in tipografia».
SCRIVERE «Come scrittore io ho sempre sognato di raggiungere un solo traguardo: quello di commuovere la gente che mi legge. Essere lodato
dai critici non mi interessa. Piacere agli intellettuali meno che meno. Mi sentirei invece riempire d’orgoglio se un lettore sconosciuto mi venisse a
confessare che l’ho fatto piangere».
TEATRO «Quando sento recitare quello che ho scritto, anche se recitato da sommi attori, ho la sensazione come se mi denudassero per la strada;
un senso di quasi vergogna. Ci sono autori che si beano di sentire questa roba qui. A me dà un fastidio terribile, un malessere».
UNIONI «Secondo me, una delle condizioni più favorevoli all’amore è
che la donna appartenga a un mondo diverso dal mio. Io preferisco per
esempio una donna del popolo a una mia collega scrittrice perché mi aiuterà a scoprire qualcosa di nuovo che non è in me. Non capisco lo scrittore che si unisce per lungo tempo a una scrittrice: vedi Moravia. Non capisco il pittore: vedi Mafai».
VITA MILITARE «La vita militare mi piace moltissimo. Probabilmente perché in tutte le collettività rigidamente organizzate e il cui scopo trascende l’interesse individuale, chi vi entra, assumendone in blocco le leggi e i costumi, resta sì irreggimentato, ma guadagna anche una specie
di libertà, nel senso che di fronte a una decisione da prendere non ci sono dubbi: per ogni caso la legge della collettività ha stabilito la via da seguire. Nello stesso tempo, l’uomo, anche se di temperamento debole, acquista una straordinaria forza che gli deriva dal sentirsi sostenuto dal blocco
dei compagni che la pensano come lui».
ZAPPAROLI «Stupiva in Ettore Zapparoli quella freschezza continua di speranze e di progetti, come se la vita dovesse sempre cominciare. In questo senso era veramente giovanissimo. […] Sebbene a dirlo sembri infame, io mi domando se la grande parete non sia stata buona veramente. “Zapparoli, Zapparoli!”. Noi gridiamo, facendo portavoce delle mani, ai ghiacciai che non rispondono; “Zapparoli, perché non torni?”. Ma in fondo, non siamo degli ipocriti? Che avremmo da offrirgli, se tornasse? Così invece egli è rimasto intatto, preservato nella sua sagoma di arcangelo, tratto via in una specie di trionfo, mentre il vento, le pietre, le nevi, le acque, i ghiacci suonano le sinfonie ch’egli avrebbe voluto scrivere. E io lo vedo ancora là, che manovra con la picca, tremendamente sprovveduto e solo, piccolissimo, un bambino, nella immensità misteriosa del santuario».