Nel 1928 Dino Buzzati presenta regolare domanda d’assunzione al «Corriere della Sera» che in estate lo manda a chiamare. Il 10 luglio varca per la prima volta la soglia di via Solferino, e la sera annota sul diario: «Oggi sono entrato al Corriere, quando ne uscirò? - presto, te lo dico io, cacciato come un cane». Viene assunto come giornalista praticante, «addetto la servizio di cronaca», e dopo un breve periodo in archivio diventa reporter, girando per i commissariati a cercare notizie.
Si innamora di Beatrice Giacometti, detta Bibi, con cui ha una relazione tormentata che si interromperà bruscamente nell’aprile del 1932 per l’improvvisa morte di lei a causa di un attacco di peritonite. Anche il suo debutto giornalistico sulle pagine del «Corriere» (il 24 luglio 1928), avviene con il breve resoconto di una scomparsa: quella dell’amico Alessandro Bartoli, compagno di scuola, di caserma e scalate in montagna, precipitato durante un’ascensione sulle Dolomiti.
Nell’ottobre 1928 si laurea con un tesi su «La natura giuridica del Concordato» con 95/100. E a gennaio dell’anno successivo, dopo aver superato i tre mesi di prova, viene assunto a tutti gli effetti al «Corriere della Sera». In novembre entra in redazione. Per un breve periodo svolge anche il compito di vice-critico musicale, sotto Gaetano Cesari, seguendo alla Scala le seconde e le successive rappresentazioni. Nel febbraio 1930 viene iscritto come professionista al sindacato dei giornalisti (allora Sindacato fascista lombardo dei giornalisti) e un mese più tardi inizia a collaborare con «Il Popolo di Lombardia», un settimanale politico-sindacale della Federazione provinciale fascista milanese per il quale illustra racconti, disegna titoli e testate, scrive articoli e novelle.
Nel 1933, dopo due anni di lavoro, pubblica il suo primo romanzo: «Bàrnabo delle montagne» incentrato sulla figura di un guardiaboschi a difesa di una polveriera persa tra le montagne, libro che gli spiana la strada al primo elzeviro sul Corriere, «Vita e amori de cavalier rospo. Il Fastaff della fauna» (27 marzo 1933). Viene inviato per la prima volta dal giornale fuori dai confini italiani. Destinazione: Palestina. Fa tappa in Grecia, Siria e Libano.
Nel 1935 esce il suo secondo romanzo, «Il segreto del Bosco Vecchio», una storia fantastica, ma non allegorica, come sottolineerà in un’intervista del 1971. Narra la vicenda del colonnello Sebastiano Procolo che, avendo ereditato una parte di una foresta, la vuole disboscare nonostante sia abitata da un popolo di geni.
Intanto comincia a collaborare con diversi periodici, primo fra tutti «La Lettura» supplemento letterario del «Corriere» che esce con cadenza mensile. Secondo l’incarico che gli viene assegnato, che manterrà fino al 1936, vi lavora nel pomeriggio, rientrando la sera alla redazione del «Corriere». Il primo racconto che appare su quelle pagine è «Sette piani», che anni dopo trasformerà nella pièce teatrale «Un caso clinico»: andrà in scena per la prima volta nel maggio 1953 al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Giorgio Strehler, e in seguito approderà anche in Francia tradotta da Alberto Camus con il titolo «Un cas interessant».
Oltre che per «La Lettura» e «Il popolo di Lombardia», scrive racconti per «Il Convegno» («L’assalto al grande convoglio») e per «Omnibus», di Leo Longanesi, dove pubblica a puntate «Lo strano viaggio di Domenico Molo» (poi incluso nella raccolta «I sette messaggeri» con il titolo «Il sacrilegio»). Proprio questo racconto sarà di ispirazione a Federico Fellini per il film mai realizzato «Il viaggio di G. Mastorna» che il regista romagnolo scriverà con lo stesso Buzzati.
Intanto comincia a lavorare al romanzo che lo consacrerà definitivamente come scrittore: «Il deserto dei Tartari». Buzzati vi si dedica nella seconda metà degli anni Trenta: lo scrive di notte, tornato a casa dal giornale, andando avanti fino all’alba. Racconta la storia di Giovanni Drogo, giovane ufficiale assegnato alla Fortezza Bastiani, al confine del grande deserto del Nord, che dopo aver consumato la vita nell’attesa dei Tartari dovrà partire, malato, proprio mentre stanno arrivando. L’ispirazione, lo spiegherà Dino Buzzati stesso, gli viene dalla routine quotidiana al «Corriere della Sera», guardando se stesso e i colleghi consumare i mesi e gli anni in un «lavoro piuttosto pesante e monotono» nell’attesa della grande occasione.